L’obbligo a restare a casa ha mutato molte delle nostre abitudini e dal lato tecnologico ha provocato una vera e propria rivoluzione digitale paragonabile all’alfabetizzazione italiana degli anni ’60.
Dal 1960 al 1968 su una RAI ancora in bianco e nero fu mandata in onda la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, condotta dal maestro Alberto Manzi con il sostegno del Ministero della pubblica istruzione. Si trattava di un corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta. Sembra che grazie a quella trasmissione un milione e mezzo di italiani ottennero la licenza elementare. Oggi sta avvenendo la stessa cosa con la differenza che si tratta di un’alfabetizzazione in primis digitale e soprattutto, a causa della pandemia da coronavirus, forzata. Uno degli aspetti di questa rivoluzione digitale sta nella modalità di lavoro a distanza:
Lo smartworking
In italiano si dice “lavoro agile”, identifica il lavoro da remoto attraverso dispositivi elettronici, (generalmente notebook) collegati ad internet. Un tempo si sentiva parlare di telelavoro, che significa sempre da casa (o comunque da una sede fissa), lo smartworking invece può essere praticato (coronavirus permettendo) da qualunque luogo, dalla casa al mare o presso una sede di coworking. A causa del lockdown lo smartworking, ancora poco conosciuto in Italia, è diventato uno strumento di massa e che, secondo le stime attuali, è praticato da oltre 2 milioni di italiani, il 9% degli occupati.
Secondo i dati di GfK (che ha analizzato le vendite di dispositivi elettronici in Italia, Francia, Spagna, Germania e Regno Unito durante il lockdown) dalla seconda settimana di marzo, il diffondersi dello smart working ha portato ad un’impennata delle vendite di monitor (+120% di unità), stampanti (+68%), notebook (+62%) e tastiere (+61%). Le webcam sono il prodotto che ha registrato il picco di vendite più elevato (+297%).
La sperimentazione “obbligata” ha fatto apprezzare ai lavoratori questa modalità di lavoro, tanto che secondo Nomisma (che ha avviato, in collaborazione con CRIF, l’Osservatorio “Lockdown. Come e perché sta cambiando le nostre vite”) il 56% di chi oggi sta lavorando da casa vorrebbe proseguire, anche se a tempo ridotto (qualche giorno al mese). Questo perché attraverso il lavoro agile il dipendente ha maggiore autonomia e può ottimizzare i tempi, fare una lavatrice piuttosto che farsi una doccia tra un report delle vendite e una riunione.
Cosa pensano le aziende?
Le aziende italiane, da sempre restie ai cambiamenti si sono trovate obbligate a concedere questo strumento ai loro dipendenti con il timore che fosse un modo per lavorare poco, tanto il capo non vede. A tal proposito è stata svolta una ricerca di mercato dalla BVA-Doxa, analizzando le reazioni “a caldo” dell’industria italiana nel periodo tra il 9 e il 16 marzo 2020 – quindi dal primo giorno in cui la quarantena è stata estesa a tutta la nazione. I risultati sono stati sorprendenti.
Per il 90% delle aziende intervistate c’è piena soddisfazione dell’efficienza e dell’organizzazione dei lavoratori. Addirittura il 39% delle società dice che queste modifiche all’organizzazione lavorativa rimarranno anche dopo la fine dell’emergenza. Non c’è da stupirsi, basta guardare un’altra ricerca (Bocconi e Politecnico di Milano) che ha messo a confronto lavoratori da remoto e lavoratori in sede. Gli smart worker fanno meno assenze (-6gg), rispettano di più le scadenze (+4,5%), sono più efficienti (+5%) e sono molto più soddisfatti dei colleghi in ufficio.
Se aggiungiamo meno traffico, meno inquinamento, maggior meritocrazia (valutazione sui risultati piuttosto che sulle ore passate in azienda) e meno costi per le aziende ecco che avremo la risposta alla domanda: “quando riprenderemo la vita lavorativa di prima?”, Come prima mai, perché non torneremo più indietro. Ah, secondo i Consulenti del lavoro sono 8,2 milioni gli italiani che svolgono un lavoro che si può fare a casa. Per adesso, ma solo per adesso è tutto, vi do appuntamento al prossimo articolo.
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